22. lug, 2022

135° post - "LA III GUERRA D'INDIPENDENZA" - 6° paragrafo - parte II / 4° capitolo - Dalla seconda guerra d’Indipendenza alla morte di Mazzini/1859-1872

Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 22 luglio 1794 furono impiccati in carcere a Torino come rei di congiura repubblicana Francesco Junod e Giovanni Chantel.

LA III GUERRA D'INPENDENZA

 Il giorno seguente Mazzini, nella sua casa a Londra Anslow era seduto in poltrona, scriveva una lettera, tenendo i fogli su di un libro appoggiato sulle ginocchia. Il calamaio con l’inchiostro era sul bracciolo e, prima ancora di iniziare a scrivere, con una mossa maldestra lo fece cadere sul pavimento, ma non riuscì ad alzarsi per pulire in terra e prendere un altro calamaio, mentre il gatto fuggì terrorizzato. Allora afferrò una matita dal taschino della giacca da camera e dopo aver detto:”Un altro segno incontestabile che la vecchiaia avanza” cominciò a scrivere:
Ad Harriet Hamilton King
Mia cara amica,
il mio soggiorno in patria non è stato inutile. Le province venete stanno organizzando un moto che l’Italia deve secondare e seconderà: Nuclei di volontari sono stati preparati, armati ed equipaggiati in Lombardia. Sono d’ accordo con Garibaldi. Io sono alla testa dell’organizzazione; egli condurrà l’azione. Il fine principale di questo mio sollecitare un moto nel Veneto è la Polonia. Mi sanguina il core a vedere ora un assassinio politico - l’assassinio continuo di un popolo coraggioso ed eroico - il quale non ha dall’Europa se non l’applauso che i nostri padri largivano ai gladiatori quando “morivano bene”. I Polacchi resisteranno durante l’inverno; ma cadranno esausti, se non saranno aiutati. Ora, la salvezza della Polonia sta in una rivoluzione ungherese; ma per determinare una rivoluzione in Ungheria, si deve intraprendere una guerra contro l’Austria in qualche altro luogo...e io dico nel Veneto.”  
Successivamente Mazzini aveva ricevuto dei giornali dall’Italia. Prese il giornale l’Unità Italiana di Milano del 30 novembre 1863 quando ricevette una visita da Emilia Venturi che gli chiese quali novità dall’Italia stava leggendo.
“Cara Emilia - rispose Mazzini - mi hai chiesto quali novità dall’Italia e ne ho giusto una che ti mostra come io sia sempre all’ordine del giorno nel mio Paese: senti un po' cosa scrive.
“I nostri lettori ricordano il famoso processo in seguito ai fatti accaduti nella notte del 29 giugno 1857, all’epoca della spedizione di Pisacane. Gli accusati, in numero di 70 circa, vennero condannati dalla Corte di Appello della città ligure a differenti pene, ed alcuni contumaci, tra i quali Giuseppe Mazzini, a quella di morte. Nel 1859, un decreto reale amnistiava tutti i condannati, presenti e contumaci, ad esclusione di G. Mazzini.
Ora, trascorsi cinque anni da quella condanna, il signor G.B. Ansaldo, usciere della Corte suddetta, tira fuori di tasca una parcella di spese per citazioni fatte d’ordine del Regio fisco, ascendente alla modesta somma di Lire 800, e si rivolge contro il solo Mazzini, citandolo in giudizio pel pagamento della sua riferita parcella, poiché i correi del Mazzini nulla più devono per citazioni fatte d’ordine del regio Fisco. Il comico poi dell’affare è la lettera commoventissima che il patetico usciere indirizzò al Mazzini unitamente alla citazione, nella speranza intenerisse le viscere colla dichiarazione che l’amore solo della sua famiglia lo costringeva a tal passo”
          A tale lettura Emilia proruppe:”Ciò che mi hai letto mi pare inaudito: spero che tu non abbia pagato le 800 lire!”
 “No davvero - rispose Mazzini - A suo tempo scrissi all’usciere che non mi sentivo di pagar la corda che avrebbe dovuto strozzarmi e che mi duoleva la sua posizione e l’amore per la famiglia che lo costringeva a dissanguare un esule in condizione non florida e che comunque non mi sentivo l’obbligo di dissanguarmi da me!”
Il re, pur dichiarandosi d’accordo con Mazzini nella corrispondenza che gli faceva avere, contemporaneamente comunicava al suo Primo Ministro Minghetti sia le lettere che riceveva da Mazzini, sia, preventivamente, il testo di quelle che gli inviava.
Nel gennaio 1864 Mazzini inviò ripetute lettere al re per lamentare che “il linguaggio della stampa governativa e le circolari ministeriali stavano registrando un volta faccia codardo, fatale assai più alla Monarchia che non alle nostre idee”.
Nonostante un tentativo degli intermediari di combinare un incontro diretto tra il re e Mazzini, sventato da Minghetti che pose il suo veto, le trattative si interruppero. Il re infatti, cercando di guadagnar tempo, chiese a Mazzini di aspettare qualche settimana e di permettere che per ora si pubblicassero le sue lettere.
Mazzini si rifiutò di autorizzare la pubblicazione delle sue dichiarazioni:”il mio scopo non è di mostrare quel che voglio e quello che credo di dover fare per l’unità d’Italia. Il mio scopo è Venezia e per tale scopo la pubblicazione richiesta non serve a nulla.”

Intanto venne deciso che la capitale del regno andava portata da Torino a Firenze e il re andò così ad abitare a Palazzo Pitti. Il Parlamento si insediò a Palazzo Vecchio, al Senato venne riservato il salone dei Dugento, alla Camera il salone del Consiglio maggiore che da allora prese il nome di salone dei Cinquecento, dal numero dei deputati.

Vittorio Emanuele II richiamò l’attenzione di Napoleone III sul malcontento sorto anche a Torino e sull’agitazione del partito repubblicano che considerava la Convenzione come la prova del tradimento della Francia, della rinuncia ad avere Roma e Venezia, e dell’accordo per cedere alla Francia la Val d’Aosta.

L’unico modo per ritornare a dominare la situazione era risolvere la questione di Venezia.
Napoleone III fece sapere a Vittorio Emanuele che non poteva accettare la richiesta di iniziare a discutere la questione del Veneto nè di arrivare alla guerra con l’Austria, a favore dell’Italia.

La questione di Venezia passò comunque in primo piano in quella stessa estate quando il ministro di Prussia si recò a Firenze e fece i primi passi per conoscere quale atteggiamento l’Italia avrebbe assunto di fronte ad un conflitto austro-prussiano. Nell’inverno ‘65-66 fu l’Austria che, intimidita dall’azione del cancelliere prussiano Bismarck, fece sondaggi a Firenze per arrivare ad un accomodamento con il governo italiano.

Lamarmora, d’accordo con il re, mandò a Berlino, nel marzo ‘66, il generale Govone per iniziare le trattative. Si firmò così, l’8 aprile, un trattato italo-prussiano in base al quale l’Italia sarebbe entrata in guerra contro l’Austria dopo che la Prussia avesse iniziato le ostilità.

Quando l’Austria conobbe il testo del trattato, fece sapere a Napoleone III di essere disposta a cedergli, perché la ricedesse all’Italia, Venezia in cambio della neutralità italiana.

A Firenze in quei giorni, al Palazzo del Governo nell’ufficio del generale Lamarmora, lo stesso generale si trovò a colloquio con il generale Cialdini. I due avevano tra le mani il giornale repubblicano Dovere di Genova.
Questo Mazzini non finirà mai di stupirmi per la sua presunzione - disse La Marmora - Ora, da perfetto incompetente qual è, si mette anche a dettare lezioni di strategia militare sulla guerra da condurre contro l’ Austria. Senta cosa scrive:
Non basta combattere: bisogna vincere. Per vincere è necessario non lasciare la scelta del terreno al nemico; scegliere quello che crea maggiori pericoli per esso, maggiori vantaggi per noi... (e fin qui nulla da obiettare). Per accertare durevoli i frutti della vittoria è necessario non solamente vincere, ma disfare l’Impero d’ Austria. 
“Dice poco il signor Mazzini!” interruppe Cialdini.
“E non è tutto, anzi adesso viene il bello” proseguì La Marmora:
“La guerra deve non localizzarsi, ma farsi guerra d’espansione: deve scegliere ad obiettivo non Verona, Mantova, Venezia, ma Vienna... ponete - e il suggerimento viene da Parigi - che l’azione principale delle forze italiane si concentri intorno a Verona. Sul terreno scelto dal nemico, fortificato con lungo studio, libero nelle sue comunicazioni colla propria base, inaccessibile all’insurrezione, gli svantaggi sono tutti per noi.
E cosa ci suggerisce il nostro stratega?” chiese Cialdini con ironia.
“E’ presto detto, anzi, fatto” riprese La Marmora
La nostra guerra si combatte sulla via di Udine e di Lubiana, mirando a Vienna e sollevando Ungheresi, Romeni, Slavi…L’Austria può, al massimo, contare su 650.000 uomini in armi. Di questi, 300.000 devono essere posti di fronte ai 300.000 che la Prussia può mandare in linea. La Moravia, la Slesia austriaca e la Boemia richiedono 40.000 uomini e altri 50.000 devono stanziare in Ungheria e in Transilvania.
Altri 20.000 devono restare, onde evitare il pericolo di un attacco russo, in Cracovia e nella Galizia e 30.000 in Dalmazia e nell’ Istria. 10.000 sono sufficienti a difendere i paesi tedeschi in mano all’Austria e la città di Vienna.
Cialdini, sorridendo, interruppe La Marmora:”Se questo non significa dare i numeri…”
Aspetti, che abbiamo bell’e pronta la soluzione, ancor più ironico disse La Marmora: Rimangono all’Austria 200.000 soldati per la guerra italiana. Ai 200.000 soldati dell’ Austria noi possiamo opporre 350.000 uomini dell’esercito regolare e 50.000 volontari e, volendo, 200.000 guardie nazionali da mobilizzarsi. Sono 600.000 uomini almeno, ai quali devono aggiungersi, sulla prima zona di guerra, gli insorti del Veneto e del Trentino.
E inoltre i 200.000 soldati austriaci devono dividersi tra i 70.000 richiesti da Mantova, Peschiera, Verona, Legnago e Venezia e i 130.000 come esercito di linea.
La Marmora quindi aggiunse:”Senta senta, qua Mazzini si supera e si guadagna i galloni di caporalmaggiore”
O i 130.000 soldati dell’esercito attivo austriaco si ritirano per la via del Tirolo o per quella di Udine. 
Ponete tra il Po e l’Oglio un campo trincerato di 45.000 uomini tra guardie nazionali e soldati, un altro di 25.000 in Ferrara, un corpo di osservazione di 65.000 sul Veneto: mandate i 50.000 volontari e Garibaldi nei paesi slavi meridionali e seguite con il grosso dell’esercito, sino a Vienna, il nemico.
O i 130.000 austriaci rimangono a combattere nel Veneto; aumentate allora il primo campo destinato a proteggere la Lombardia sino a 90.000 uomini), aumentate il secondo, destinato a difendere il Po, fino a 55.000 uomini lasciando i 50.000 volontari con Garibaldi all’impresa tra gli Slavi.
Con l’uno o l’altro metodo l’obiettivo della guerra deve essere Vienna....Nel Quadrilatero potete soccombere; su questa via nol potete.”

A conclusione della lettura dell’articolo, La Marmora e Cialdini, risero di gusto.

Il giorno seguente, il generale prussiano Moltke, capo dell’esercito, entrò nell’ufficio del Cancelliere Bismarck a Berlino, con in mano il giornale che riportava l’articolo di Mazzini:”Conte Bismarch, ho fatto tradurre l’articolo che il Mazzini ha dato alle stampe e glielo sottopongo. A parer mio la strategia militare che egli indica è degna di un generale: oltre a denotare una perfetta conoscenza degli effettivi austriaci suggerisce gli attacchi che l’esercito italiano deve portare contro gli austriaci. Poiché condivido pienamente tale strategia, Le suggerisco di far sapere al Governo italiano che noi siamo concordi col Mazzini e che sarebbe bene che l’esercito italiano seguisse queste istruzioni. E’ vero che i generali austriaci saranno sull’avviso, ma ciò non cambia nulla: le forze che l’Austria può porre in campo sono proprio quelle indicate da Mazzini e solo quelle.
“Sono d’accordo con lei generale Moltke. Mandi a Firenze dal Primo Ministro La Marmora il nostro ambasciatore Usedome: noi chiediamo che l’esercito italiano aggiri le fortezze del Quadrilatero e avanzando nel Polesine (non nel Tirolo come suggerisce Mazzini, ché nel Tirolo si parla la nostra lingua) o passando il Mincio attraverso di esse, raggiunga, col grosso delle sue forze Padova e di qui prosegua verso l’Isonzo e il cuore dell’Impero asburgico. Noi faremo altrettanto da nordovest verso Vienna.”
Il 6 giugno i prussiani dichiararono guerra all’Austria e passarono la frontiera, mentre in Italia si discuteva ancora su chi doveva guidare le operazioni belliche. Quanto al piano di battaglia suggerito dai Prussiani, il re disse a Lamarmora “Non stia a rispondere. Non ho bisogno che i diplomatici mi insegnino a fare la guerra.”

Il 24 giugno gli italiani e gli austriaci si scontrarono a Custoza. Non ascoltando Mazzini e Moltke, l’esercito italiano si ritrovò nel bel mezzo del Quadrilatero. L’arciduca Alberto, comandante in capo delle forze austriache, nel suo rapporto ufficiale sulla battaglia scrisse:”Non si può negare all’avversario la testimonianza d’essersi battuto con tenacia e valore. I suoi primi attacchi erano vigorosi e gli ufficiali, slanciandosi in avanti, davano l’ esempio”.

La Prussia intanto sconfisse gli austriaci a Sadowa il 3 luglio e il 4 l’Austria chiese a Napoleone la sua mediazione per convincere l’Italia a ritirarsi dalla guerra, ottenendo in cambio il Veneto, sempre tramite la Francia.

L’8 luglio del ‘66 la flotta italiana condotta dall’ammiraglio Persano lasciava Ancona e invece di avviarsi verso Trieste, il 20 si trovò nei pressi di Lissa a dover fronteggiare la flotta dell’ammiraglio Tegetthof, dove fu sconfitta e perse le navi “Re d’Italia” e “Palestro”

Il 21 luglio iniziarono le trattative per la pace tra Prussia ed Austria e il 2 agosto fu firmata la pace a Praga sotto la mediazione di Napoleone III.

L'Italia, in base al trattato firmato a Praga, fu costretta ad accettare la Venezia dalle mani di Napoleone, a rinunciare al Trentino e alla Venezia Giulia.