7. lug, 2022

120° post - "I MARTIRI DI BELFIORE" - 2° paragrafo / 3° capitolo - I moti mazziniani dal 1852 al tentativo di Carlo Pisacane (1852-1858)

Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 7 luglio 1799 fu impiccato a Napoli Antonio Tramaglia per aver vilipeso la bandiera regia borbonica.

I martiri di Belfiore

Nel 1852 a Mantova, nel castello di San Giorgio, vicino al lago, il vescovo e tre preti, preceduti dall’Auditore e da un capitano austriaco entrarono nella grande stanza adibita ad ufficio dell’ispettore.
All’interno vi erano le guardie e i secondini in uniforme da parata; a un lato della stanza vi era un tavolo ricoperto di una tovaglia bianca, con sopra un Crocefisso e quattro candelieri.
Il Vescovo e gli altri si disposero al di là del tavolo. Poi, dalla porta d’ingresso venne introdotto, tra le guardie, Don Enrico Tazzoli, rivestito dei paramenti sacri come se dovesse celebrare la messa, e portato davanti al tavolo e al crocifisso.
Appena il prete si fermò, l’Uditore cominciò il rito:”Don Enrico Tazzoli, siete stato condannato alla morte per aver partecipato alle congiure mazziniane, come capo del Comitato Nazionale per la Lombardia e per aver raccolto i finanziamenti che dovevano servire ad armare il popolo contro il nostro sovrano. Ma il cattolicissimo governo austriaco non può dare un sacerdote nelle mani del boia, per cui, prima di subire la meritata condanna, sarete soggetto alla degradazione solenne, nelle forme prescritte dai canoni.”
Allora il Vescovo si avvicinò a Don Tazzoli, che si inginocchiò davanti a lui. Il vescovo aveva le lacrime agli occhi e dovette dire:”Ti tolgo questi sacri paramenti che non potrai più indossare in vita.”
Iniziò quindi la svestizione pezzo per pezzo degli abiti sacerdotali, fino a che il sacerdote rimase con un solo camiciotto di tela grezza.
E ancora il vescovo con un filo di voce:”Sia tolta ogni traccia della tonsura, dal capo del condannato”.
Uno dei sacerdoti gli rasò la testa dai capelli (con sapone e rasoio) fino a che scomparve quindi ogni traccia della chierica.
Il Vescovo, in lacrime come gli altri sacerdoti, ebbe un attimo di esitazione, che irritò l’Uditore che intervenne violentemente:”Proceda, proceda.. così come prescrivono i sacri canoni: ora deve raschiare a sangue le estremità delle dita del condannato che hanno toccato le ostie consacrate e le sacre cose e infine il reietto deve essere allontanato dall’altare con un calcio.”
Il Vescovo, sempre piangendo, anziché il vetro tagliente che l’Uditore gli porse, si tolse di tasca un temperino e preso un dito di Don Tazzoli, lo toccò appena senza tagliarlo. Poi fece alzare il prete, che era in ginocchio, e invece di allontanarlo con un calcio, come prevedeva il Pontificale, lo abbracciò e lo strinse a sè.
A quel punto don Tazzoli disse:”In faccia degli uomini non sono più prete, ma in faccia a Dio, giustissimo, sapiente, spero ancora di esserlo.”
Poi don Tazzoli lasciò la stanza con i ferri ai polsi, scortato da otto gendarmi.

Il mattino seguente, alla valle di Belfiore, sulla strada postale di Milano, che si distende fino al lago, le cinque forche che si stagliavano contro il cielo velato di nubi erano pronte. Giunsero su una carretta i condannati. Quasi contemporaneamente arrivò il prete confortatore che alla vista della carretta si fermò. Ai quattro lati di della carretta si schierarono i soldati austriaci che poi si incolonnarono davanti e dietro i condannati. Erano inoltre schierati molti altri soldati austriaci davanti alle forche. Poi fu la volta dell’Uditore che spiegò una carta e iniziò a leggere, mentre attorno tutti tacevano:”Tazzoli Enrico, Scarsellini Angelo, De Canal Bernardo, Zambelli Giovanni, Poma Carlo per aver attentato alla sicurezza dello Stato siete stati condannati alla pena capitale che sarà eseguita oggi stesso mediante la forca.”
Don Tazzoli si mise in ginocchio, poi tutti gli altri condannati ne seguirono l’esempio, ponendosi attorno al sacerdote: tutti fecero il segno della croce e intonarono il Pater Noster. Poi Tazzoli che aveva nella destra un crocifisso, si alzò in piedi e benedisse i compagni.
Poi i cinque vennero accompagnati ai piedi delle forche, dove, nell’ordine di posizione assunta, vennero strozzati dal boia, Zambelli, Scarsellini, Tazzoli, Canal, ultimo Poma.
La forca usata per impiccare i cinque martiri era di nuova invenzione ed adoperata per la prima volta; consisteva in una colonna di legno rotonda, alta circa tre metri che aveva in cima un gancio, al quale si attaccava il capestro che andava al collo dell’impiccando. Ai piedi, vicino a terra vi era una carrucola di ferro con un manubrio, con il quale la carrucola girava velocemente. Contro la colonna stava appoggiato un piccolo tavolo sul quale saliva il condannato per mezzo di una scaletta di tre o quattro gradini. Dalla parte opposta del tavolo stava appoggiata una scala di legno, alta quanto la colonna e sulla quale andava il boia per attaccare al gancio il capestro del condannato e dalla quale poteva piegare in avanti il collo del condannato per rompergli la vertebra.
Al condannato venivano legate strettamente le braccia al corpo e poi piegando le stesse sopra lo stomaco, venivano ancora legate a mò di manette. Gli veniva legata la cravatta, abbassato il colletto della camicia e applicato al collo un doppio capestro anche alla estremità aveva un cappio. Il capestro era doppio, cioè di due corde una sottile e l’altra grossa che sostenesse il peso di un uomo. Il condannato veniva preso dal carnefice per un braccio e su per la scaletta raggiungeva il tavolo col dorso voltato alla colonna. Allora il boia che aveva aiutato il condannato a salire sul tavolo, lo toglieva di sotto il condannato che cadeva come piombo lungo la colonna; quindi gli stringeva un altro cappio nei piedi che era attaccato alla carrucola la quale, mossa velocemente dal boia in tre o quattro giri strozzava meglio il condannato: intanto l’altro boia che stava sulla scala, in alto stringeva contemporaneamente il capestro al collo del condannato e spingeva violentemente in avanti e in basso il suo capo in modo che si rompesse più in fretta la vertebra. Tutta l’operazione si concludeva in tre o quattro minuti se tutto andava bene, altrimenti come nel caso di Pier Fortunato Calvi, l’ultimo dei martiri di Belfiore impiccato nel 1855 la cui agonia durò ben più a lungo.